La tradizione “rivissuta” con un ideale dizionario di dialetto empolese
Le parole che usavano i nostri nonni
Un piccolo volume del 2001 sarà presto ampliato con nuovi vocaboli della cultura contadina
EMPOLI. “Cenciaioooo... donne c’è i’ cenciaio! Compro stracci e ferri vecchi... ve li pago a peso d’orooooo... Gnamo, donne, c’è i’ cenciaiooooo!”. E’ una frase presa da un raccontino di tradizione empolese. Parole che solo un empolese puro sa leggere con il tono giusto, con gli accenti ognuno dove deve stare e con ogni termine caricato di tutto il peso della parlata empolese-fiorentina. Già, ma come parlano gli empolesi? Hanno o non hanno una cadenza, hanno nel dna delle parole alle quali sono affezionati e che non scambierebbero per nessun motivo al mondo? Come tutti i buoni toscani, anche gli empolesi hanno una pronunciatissima “gorgia”, che non è una strana malattia congenita, piuttosto un vezzo linguistico che fa impazzire romani e milanesi: la famosa “c” aspirata che fa tanto ridere nella frase “una coca-cola calda calda con la cannuccia corta corta”. E come figli di fiorentini, gli empolesi nella loro parlata hanno l’abitudine di tagliar via l’infinito dei verbi - devo andà, voglio mangià, ho da studià, fammi sentì -. E di pronunciare l’articolo determinativo “il” al 50%, a prescindere dall’ambito semantico al quale si attribuisce: dagli oggetti quotidiani, i’bbicchiere, i’bbiro, i’ppiatto, i’ccavatappi, a quelli anche più svariati, i’vvolante, i’ppistone, i’tram, i’bbottone, e così via. Nell’ipotetico dizionario di dialetto empolese c’è anche un pronome pseudo dimostrativo che sta a indicare il complemento oggetto “voi”: l’incomprensibile e francesizzante “vu”. “Non vu mm’ascoltate”, “vu glielo potete chiedere”, “Icché vu avete fatto ieri sera?” e via dicendo. Per molti versi, l’empolese è una diretta derivazione della calata fiorentina, legata alla sonorità poetica e colorita dei grandi poeti che proprio da Firenze hanno dato vita all’italiano unificante. E resta il fatto che oggi i giovani empolesi sono molto più soggetti ai tormentoni televisivi piuttosto che ai modi di dire provenienti dalla cultura contadina. Quello che comunque è vero, è un dato di fatto che - nonostante i toscani abbiano una calata e non un dialetto stretto come gli abitanti di tante altre regioni italiani - gli empolesi hanno ancora un discreto numero di espressioni tradizionali e popolari. Sono quelle che ha raccolto per la prima volta il dottor Paolo Lambruschini nel suo piccolo vocabolario di empolese, pubblicato nel 2001 in occasione della festa del volontariato. Dalla A di “abbaione”, “accoglienza rumorosa che un gruppo fa ad un singolo che può avere significato positivo o negativo”, alla Z di “zunnenne” - parola onomatopeica per indicare una musica ritmata e ripetitiva - nel dizionario di Lambruschini ci sono tante parole di uso tutto sommato comune, ma tante altre anche meno usuali e buffe da leggere. Cosa vuol dire “sentirsi in avveligione”, per esempio? “Situazione psichica di persona giù di morale, ma anche così stanca da non aver più voglia di niente, neppure di mangiare”. Oppure, c’è da aver paura quando uno ha intenzione di far “misdea”? In parte sì, perché vuole dire “atto di confusione violenta: “vengo e fo misdea” cioè picchio tutti e rompo tutti”. Ci sono poi espressioni articolate come “domando e dico” che è un tipico intercalare in particolar modo maschile, “una esclamazione per chiedere anche consenso di chi ascolta su un fatto un po’ clamoroso da commentare”, il classico “Ma io mi domando e dico!?”; oppure “fare il diavolo e peggio” che indica l’atteggiamento di chi fa confusione e inventa sempre cose nuove e stravaganti. Sono detti popolari anche “dare un tanto” e “portare per bocca”, che rispettivamente vogliono dire “una certa quantità di denaro: non lo farei neppure mi dessero un tanto” e “parlare di una persona per indicarne le malefatte: non fare così, altrimenti ti fai portare per bocca, ossia fai parlar male di te”. L’espressione “dare un tanto” è spesso coniugata con il verbo tronco “sapere”: “io darei un tanto a sapè!” che vuol dire che si sarebbe disposti a pagare qualsiasi cifra pur di sapere un determinta cosa. Tante parole dialettali indicano persone o cose di poco conto: “premicione”, persona inetta e buona a poco, “patonfio”, persona grassa, lenta di movimento e pensiero, “manfano”, persona rozza, “lotro” e “lercio”, “brindellone” e “lernia”, una persona di cattiva compagnia, perché “mangia sempre con smorfia di fastidio”.
Agnese Fedeli
Il Tirreno, 20 novembre 2005
Le parole che usavano i nostri nonni
Un piccolo volume del 2001 sarà presto ampliato con nuovi vocaboli della cultura contadina
EMPOLI. “Cenciaioooo... donne c’è i’ cenciaio! Compro stracci e ferri vecchi... ve li pago a peso d’orooooo... Gnamo, donne, c’è i’ cenciaiooooo!”. E’ una frase presa da un raccontino di tradizione empolese. Parole che solo un empolese puro sa leggere con il tono giusto, con gli accenti ognuno dove deve stare e con ogni termine caricato di tutto il peso della parlata empolese-fiorentina. Già, ma come parlano gli empolesi? Hanno o non hanno una cadenza, hanno nel dna delle parole alle quali sono affezionati e che non scambierebbero per nessun motivo al mondo? Come tutti i buoni toscani, anche gli empolesi hanno una pronunciatissima “gorgia”, che non è una strana malattia congenita, piuttosto un vezzo linguistico che fa impazzire romani e milanesi: la famosa “c” aspirata che fa tanto ridere nella frase “una coca-cola calda calda con la cannuccia corta corta”. E come figli di fiorentini, gli empolesi nella loro parlata hanno l’abitudine di tagliar via l’infinito dei verbi - devo andà, voglio mangià, ho da studià, fammi sentì -. E di pronunciare l’articolo determinativo “il” al 50%, a prescindere dall’ambito semantico al quale si attribuisce: dagli oggetti quotidiani, i’bbicchiere, i’bbiro, i’ppiatto, i’ccavatappi, a quelli anche più svariati, i’vvolante, i’ppistone, i’tram, i’bbottone, e così via. Nell’ipotetico dizionario di dialetto empolese c’è anche un pronome pseudo dimostrativo che sta a indicare il complemento oggetto “voi”: l’incomprensibile e francesizzante “vu”. “Non vu mm’ascoltate”, “vu glielo potete chiedere”, “Icché vu avete fatto ieri sera?” e via dicendo. Per molti versi, l’empolese è una diretta derivazione della calata fiorentina, legata alla sonorità poetica e colorita dei grandi poeti che proprio da Firenze hanno dato vita all’italiano unificante. E resta il fatto che oggi i giovani empolesi sono molto più soggetti ai tormentoni televisivi piuttosto che ai modi di dire provenienti dalla cultura contadina. Quello che comunque è vero, è un dato di fatto che - nonostante i toscani abbiano una calata e non un dialetto stretto come gli abitanti di tante altre regioni italiani - gli empolesi hanno ancora un discreto numero di espressioni tradizionali e popolari. Sono quelle che ha raccolto per la prima volta il dottor Paolo Lambruschini nel suo piccolo vocabolario di empolese, pubblicato nel 2001 in occasione della festa del volontariato. Dalla A di “abbaione”, “accoglienza rumorosa che un gruppo fa ad un singolo che può avere significato positivo o negativo”, alla Z di “zunnenne” - parola onomatopeica per indicare una musica ritmata e ripetitiva - nel dizionario di Lambruschini ci sono tante parole di uso tutto sommato comune, ma tante altre anche meno usuali e buffe da leggere. Cosa vuol dire “sentirsi in avveligione”, per esempio? “Situazione psichica di persona giù di morale, ma anche così stanca da non aver più voglia di niente, neppure di mangiare”. Oppure, c’è da aver paura quando uno ha intenzione di far “misdea”? In parte sì, perché vuole dire “atto di confusione violenta: “vengo e fo misdea” cioè picchio tutti e rompo tutti”. Ci sono poi espressioni articolate come “domando e dico” che è un tipico intercalare in particolar modo maschile, “una esclamazione per chiedere anche consenso di chi ascolta su un fatto un po’ clamoroso da commentare”, il classico “Ma io mi domando e dico!?”; oppure “fare il diavolo e peggio” che indica l’atteggiamento di chi fa confusione e inventa sempre cose nuove e stravaganti. Sono detti popolari anche “dare un tanto” e “portare per bocca”, che rispettivamente vogliono dire “una certa quantità di denaro: non lo farei neppure mi dessero un tanto” e “parlare di una persona per indicarne le malefatte: non fare così, altrimenti ti fai portare per bocca, ossia fai parlar male di te”. L’espressione “dare un tanto” è spesso coniugata con il verbo tronco “sapere”: “io darei un tanto a sapè!” che vuol dire che si sarebbe disposti a pagare qualsiasi cifra pur di sapere un determinta cosa. Tante parole dialettali indicano persone o cose di poco conto: “premicione”, persona inetta e buona a poco, “patonfio”, persona grassa, lenta di movimento e pensiero, “manfano”, persona rozza, “lotro” e “lercio”, “brindellone” e “lernia”, una persona di cattiva compagnia, perché “mangia sempre con smorfia di fastidio”.
Agnese Fedeli
Il Tirreno, 20 novembre 2005
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